XIII

«LA GINESTRA»

Nella Ginestra gli esperimenti satirici polemici danno il loro frutto positivamente e negativamente, rappresentando il controllo di un linguaggio provato in varie formule per esiti di cadenza e sintassi, coerente espressione della poetica unitaria, per organismi e strutture che adeguino una radicale unità di esigenze estetiche ed etico-filosofiche nella loro forma personale. Ed è nella Ginestra che la tendenza antiidillica giunge appunto alle sue estreme conseguenze, corre i rischi piú audaci ed utilizza i risultati di un periodo ormai lungo. Ed è anche perciò che, come avviene spesso per la poesia romantica, anche la piú neoclassica, la piú innamorata dell’aurea perfezione umanistica, solo mettendosi dal punto di vista di uno studio di poetica e non sulla curva di una parabola unilaterale di sviluppo di un unico motivo poetico ritenuto centrale e generativo, si riesce a superare la comune impressione di una grandezza poco spiegabile tra morale e poetica, si giunge ad accertare la vera natura di questa poesia non in una valutazione isolata, da componimento di critica estetica (a qualunque «classe» scolastica si appartenga), quanto in uno storico lavoro di ricognizione delle ragioni germinali della poesia in un terreno preparato e conosciuto, tenendo conto cioè degli atteggiamenti della nuova poetica come si è venuta formando e attuando dopo la evidente frattura del Pensiero dominante.

Il legame fra questa poesia e quelle precedenti dello stesso periodo è infatti piú forte di quanto superficialmente possa apparire anche se le sue particolari condizioni e la preparazione vasta offerta dai componimenti satirici e dalle Sepolcrali, rimaste di solito un po’ in ombra, sbocca in una espressione di singolare novità. Sí che, a parte la situazione biografica diversa che faceva distinguere già dal Carducci una lirica appassionata (quella per la Fanny, tanto per intenderci) da una filosofica (quella del periodo napoletano), il passaggio dovuto a momenti intermedi, ad esperienze complesse, appare sostanziale. Mentre l’intima coscienza poetica che mosse le strofe potenti e rapite del Pensiero dominante muove ora con intenzioni di forza sinfonica le lunghe e slanciate strofe della Ginestra, i suoi moti a tentacolo in un’unica esigenza di musica sicura, non abbandonata, di colore tutto spirituale ed interno, in cui le pause, le sottolineature apparentemente discorsive funzionano da rinforzi virili di un discorso lirico che vuole esprimersi energicamente per una sorta di persuasione poetica che rende anche le immagini e i paragoni piuttosto parabole pregne di vita e di rigore etico, lontane da ogni ornato, da ogni periferico arricchimento gustoso.

Come si può vedere da vicino in un esame di poetica e di poesia mai cosí facilmente stringente, la coerenza intima della costruzione raggiunge la sua perfezione nella Ginestra proprio per l’accordo profondo che tutti i motivi del nuovo Leopardi ritrovano realizzando (pienamente nella poetica e con potente approssimazione nella poesia) quella espressione unitaria che non dipende da una pura pienezza di contenuto, ma che in questo Leopardi presuppone il confluire delle esperienze essenziali in direzioni di poesia non sporadiche, in radice di poesia che ne mantenga l’urgenza e la decisione in urgenza e decisione di musica.

Coerenza con l’atteggiamento intimo del nuovo periodo e coerenza con le sue manifestazioni concrete.

Per quanto solo a scopo dimostrativo si possano scindere entro questa espressione l’atteggiamento spirituale del Leopardi e la sua figura poetica, è lecito indicare rapidamente i contorni della forza che vive nella Ginestra e che si era esplicata piú o meno intensamente nei canti precedenti.

Fuori delle aride antinomie natura-ragione e simili, che vissero d’altronde veramente in poesia prima di diventare formule nelle mani degli studiosi, il Leopardi di questo nuovo periodo ha accentuato il carattere affermativo delle sue convinzioni riunendole sia come nucleo di «persuasione» in cui esperienza interiore e pensiero storicizzato si fondono, sia come accento di quella persuasione, come identificazione con la sua personalità persuasa, con la coscienza della sua grandezza che in questi ultimi tempi si era fatta cosí perentoria da superare ogni minore polemica, ogni esaltazione inferiore del proprio io di fronte a persone giudicate precedentemente con un’asprezza astratta o quasi pettegola (l’epistolario del primo viaggio romano) e da farsi di una violenza magnanima nel suo centro saldo assoluta, alta, a contrasto tragico, sublime.

Il «mondo sciocco» del Pensiero dominante, il mondo che consola «sé coi fanciulli» in Amore e Morte, il mondo che è fango in A se stesso, continua nel «secol superbo e sciocco» della Ginestra e si arricchisce di un tono quasi di pietà che non esclude il disprezzo, ma attutisce la satira di cui il Leopardi si era liberato come di tono fondamentalmente inferiore nella Palinodia, nei Nuovi Credenti, nei Pensieri, che fungono da preparazione e da purificazione per un’opera in cui la poesia raramente decade in brutale e semplice satira dai suoi alti accenti di lotta e di affermazione religiosa: o sostiene la satira, liberata da una impostazione musicale che la rendeva poeticamente impossibile e trasformata attraverso le prove stilistiche precedenti in atteggiamento poeticamente calcolato e liricamente sostenuto.

Religiosa è anche la parola adatta al tono cui il Leopardi giunge nella Ginestra e a cui tendeva con realizzazioni parziali e diverse nei canti di questo periodo in cui l’espressione della passione d’amore ha la pretesa di precisione scandita di una liturgia e perfino la protesta di A se stesso ha la risoluta nudità di una persuasione, di una affermazione senza compenso di intelletto o di sensi, integralmente spirituale e che si può dire religiosa come è l’anima che regge la parabola altissima della Ginestra. Non tanto perché, come scrive in termini fra pascaliani e kierkegaardiani il Luporini[1], «se nella disperazione, com’io credo, troviamo Dio e quindi ne siamo redenti, il pessimismo leopardiano, l’ateismo leopardiano è una delle piú alte testimonianze di Dio che siano uscite dallo spirito umano», quanto piuttosto perché, al di là di simili dialettiche tradizionali, il Leopardi, superata la posizione di costatazione e di nostalgia che lo segue fino al ’30, seppe fondare su principi illuministici, senza ritorni al trascendente, una esperienza di affermazione umana che nella Ginestra si fa strada ad una desolata, ma sicura costruzione di valori. Né vale l’argomento sofistico che la miseria umana rilevata dal Leopardi non ammette nessuna valutazione positiva. Fede scabra come il paesaggio in cui si fa vivere, ma, come l’esistere nudo dei morti, «sicura dall’antica illusion» e pure pervasa da una coscienza della situazione umana che come operò ad abbattere ogni pretesa di illusioni trascendenti, opera poi a creare una solidarietà che poteva essere principio di uno sviluppo leopardiano profetico e rivelatorio.

Quella «disperata, ma vera» filosofia di cui il Leopardi parlava nel ’32 diviene piú che una costatazione amara e quanto piú si precisa in una fede basata sulla filosofia settecentesca ritenuta culmine insuperato del pensiero umano, tanto piú si fa concretamente romantica (di un romanticismo cosí poco vaporoso e retorico, cosí lontano da quelle cadenze lacrimose e sentimentali che agirono sul costume italiano confondendosi con il nazionalismo dei «vari elmi di Scipio») e affermativa, rifuggendo dagli schemi ottocenteschi (perfettibilità, primato di nazioni ecc.) e individuando, sia pure con procedimento filosofico arretrato, un punto di concretezza inoppugnabile, di persuasione personale senza margini di accettazione tradizionale. Né importa se c’erano dietro Giobbe, quelle citazioni bibliche che potevano indicare piú che un’aura antica, solenne, proprio un appello religioso a cui evidentemente l’ultimo Leopardi tenne moltissimo moltiplicando echi di testi sacri e portando finalmente nella Ginestra una piú chiara volontà di tono religioso, evangelico con la citazione giovannea in testa al canto.

Naturalmente questo tono evangelico va inteso non come richiamo estetico ad «una» religione (ed anzi in quest’ultimo periodo il Leopardi aveva troncato ogni possibile concessione anche esteriore di fronte alle credenze tradizionali) e le parole piú drammatiche del piú grande dei vangeli collocano in una zona di verità decisive la volontà di poesia come appello che si sente a suo modo di salvezza. Altro che stanca meditazione poetica come di solito si intende la Ginestra in cui, secondo la critica di origine crociana, si alternerebbero brani lirici (quelli che piú arieggiano l’idillio) e brani oratori e polemici!

Invece delle giustificazioni di tipo lucreziano e delle ammirazioni nettamente contenutistiche, occorre, sulla strada già percorsa a proposito degli altri canti del periodo, accertare una poetica che non chiede distese esposizioni (per dirla con Malraux, arte come «parure» di idee e di «civilisation»)[2], non descrittivismo lineare (la meditazione lirico-filosofica), non conclusione di colorita armonia in cui un temperamento agitato ed inasprito possa insinuare i suoi sfoghi contro un mondo avversato (in certo senso la posizione delle Ricordanze). Una poetica invece che attua l’esigenza di una forma unitaria, esplosiva, in cui verità posseduta e personalità creatrice vivono nello stesso accento, nella stessa cadenza musicale e cercano le misure energiche di una poesia a suo modo iniziatica e rinnovatrice alla cui tensione bisogna giungere dall’intimo dell’esperienza leopardiana e dalla sua lenta preparazione stilistica entro l’ambito della nuova poetica.

Proprio l’opposto di una impostazione puramente meditativa (il Leopardi «spettatore», incapace di energia attiva, rinchiuso nella sua introspezione e nella sua memoria) e di una poetica didascalica, perché l’«insegnare» della Ginestra è semmai un porsi come esempio attivo, come voce profetica, e l’oratoria, che qua e là si profila nei suoi caratteri piú tradizionali, non è la conseguenza di una nascita retorica o di una composizione a piú motivi come viene ad affermare anche recentemente Luigi Russo[3], che pure ha bene intravveduto la natura originalissima della Ginestra. Si tratta di momenti piú fiacchi in cui una certa prosa supplisce con mimesi piú esteriore alle mosse dell’intima poesia, o di residui di impalcatura e di attacco alla polemica piú spicciola su cui in maniera piú particolaristica sorgeva la lotta contro «mondo sciocco» e natura. Mentre qui risulta alla sua piú coerente espressione e alla sua massima potenza quel motivo romantico che lega in una storia di spiritualità e di poetica il Leopardi all’Alfieri, al preromanticismo, alle vene piú segrete del secolo ben oltre le vaghe indicazioni del «Weltschmerz», in un atteggiamento di religiosità di protesta che trova una delle sue parabole, uno dei suoi miti essenziali nella Ginestra e nell’«uom di povero stato».

Maturata nella piú intima esperienza che romantico abbia mai fatto, fuori di ogni improvvisazione comunque retorica o mistico-sensuale (i termini Byron-Novalis), nutrita di una forza di convinzione precisata in riprove razionalistiche (il ragionamento illuministico guidato a conclusioni romantiche) e da un’energia eroica lontana dal “gesto” che il Leopardi aveva consumato nelle sue poesie giovanili, la parabola della Ginestra (la chiamiamo cosí proprio per un suggerimento del tono evangelico e profetico del canto) riassume vitalmente tutte le piú segrete aspirazioni romantiche (e non a caso nell’«uom di povero stato» e nella durezza combattiva di quella strofa ritorna la presenza dell’alfieriano «uom di sensi e di cor libero nato») ad una virilità pensosa e disillusa, amaramente eroica contro una forza crudele su di uno sfondo solenne e desolato.

Quel senso minuto della situazione umana che il Leopardi aveva individuato nelle infinite riprese dello Zibaldone, esaltandolo nelle Operette a poetica «souffrance», a infelicità grande se cosciente, e che poi si era deciso in protesta nuda ed essenziale nel nuovo periodo in A se stesso, si definisce nel volto eroico della Ginestra. Senza che la grandiosità della nuova espressione sia turbata dalla polemica con il secol «superbo e sciocco», con gli uomini «nuovi credenti», perché, ridotto a un muto contrasto con la natura il canto perderebbe il suo carattere di pienezza concreta, si farebbe troppo biblico (la direzione di De Vigny), mentre è proprio il salire della poesia da satira dei nuovi credenti a tragico contrasto con la natura inesorabile e ad appello, è proprio il riferimento ad una storia di civiltà («mille ottocento ecc.») che dà al canto un valore di animata grandiosità, di sintesi di atteggiamenti scorciati, ma non eliminati. Né la presenza degli «uomini» e del loro tempo porta il brulichio discorsivo della Palinodia o il pittoresco del Sabato e della Quiete cui sembra appena indulgere l’accenno, del resto diversamente intonato, del villanello che fugge al sopravvenire della lava.

Solo se si comprende l’atteggiamento romantico del nuovo Leopardi[4] e si risale a quella poetica formatasi con il Pensiero dominante e su cui sono cresciute esperienze inevitabilmente operanti ad un ulteriore spostamento, si riesce a rivedere un giudizio sulla Ginestra e a collocarlo – ciò che piú conta – in una storia della poesia leopardiana, correggendo l’unilateralità della critica che sulla Ginestra ha fatto le sue prove piú infelici proprio perché in generale partiva da un ritratto frammentario o angusto del poeta e si trovava di fronte ad una poesia maturata piú segretamente nel corso dei nuovi canti da esperienze poco chiarite nel loro apparire puntuale.

Dato questo atteggiamento piú esplicito ed “evangelico” – non perciò languido, e pascoliano – cosciente e sicuro del proprio valore (quella personalità virile che nei nuovi canti ha affermato se stessa e negato tenacemente i limiti, la prepotenza del fato, sentendosi tutt’una col suo ideale, aspira a chiarirsi, a mostrarsi agli uomini con una convinzione di sufficienza che può richiamare l’ideale stoico propugnato dal Leopardi nella prefazione alla sua traduzione del Manuale di Epitteto, ma che supera con il suo calore romantico ogni stoicismo freddo e ragionativo), è facile dedurre come la poetica eroica ed unitaria di questo periodo abbia qui subito quasi un ulteriore rafforzamento e insieme abbia assunto una larghezza non espositiva, ma accogliente, sempre meno paurosa di apparire prosastica quanto piú sviluppava le sue esigenze musicali in senso di costruzione sinfonica.

E si noti che lo stesso confluire nella Ginestra dei tentativi polemici piú in superficie (Paralipomeni, Palinodia, Nuovi Credenti) e di ricerche schiettamente musicali come nelle due Sepolcrali, in cui pure si tenta un discorso lirico che volga in pure misure musicali uno svolgimento di rigore filosofico (ma la eccessiva cura tecnica poteva apparire perfino ornamentale raffinatezza di accompagnamento a un discorso di altra natura), indica da quali complesse esigenze espressive sia nato questo canto in cui troppo spesso si suol notare un cedere della fantasia ancora lampeggiante fra smorti squarci oratorii, o una specie di improvvisazione a lungo respiro della quale sarebbero prova le scarse correzioni: se esse non potessero invece dimostrare la sicurezza di piglio di quest’ultimo Leopardi che pure negli stessi anni sapeva rivedere con tanta acutezza nelle correzioni dello Starita i canti precedenti.

La poetica da cui nasce la Ginestra risente del bisogno non improvviso di un discorso lirico (si sottolinei la particolarità in questo caso della espressione indivisa) capace di svolgersi sí per immagini, ma interne e non ornamentali, per motivi di musica, ma non per cadenze di canto, per succedersi di posizioni di persuasione sviluppate coerentemente in misure musicali, sinfoniche. E riprende le forme energiche già adoperate fino in A se stesso ed Aspasia adibendole ad una funzione piú larga e piú sintetica su quella linea di espressione unitaria che aveva portato il Leopardi piú in là (e non diciamo perciò piú in alto) dei miti dolenti ed armonici, delle conclusioni divinamente pittoresche degli idilli. Certo con pericolo di prosa che si realizza però solo sporadicamente come momento di debolezza lirica, come residuo di posizioni forti non interamente consumate poeticamente, allo stesso modo che negli idilli vi era un pericolo di canto arcadico, di succedaneo sentimentale di intensa liricità non pienamente concretata. Non contando che nel periodo prosastico della Ginestra rientra oltre il residuato di certa aridità illuministica che pure è indispensabile alla luce fosca del canto, al suo sapore di concretezza materialistica, anche la suggestione del motivo machiavellico-alfieriano già notato nella Palinodia e qui presente, fuori della luminosa eleganza foscoliana, nella sua durezza scabra di filosofia della forza, nella sua approssimativa soluzione alfieriana.

Ricchezza dunque di motivi vitali in una poetica che aspira ad una espressione che in termini romantici si potrebbe dire piú che poetica (cioè al di là della linea tassesca-arcadica) per quanto da certi conati romantici teorizzati specialmente fra i germanici il Leopardi fosse immunizzato comunque dalla sua cultura letteraria e dal suo lucido illuminismo. E questa educazione letteraria e questo razionalismo si rivelano ancora nel disprezzo di ogni approssimazione, di ogni non finito, mentre si subordinano ad una volontà di tensione che provoca mosse lunghe, rivoluzionarie e porta un tono di recisa perentorietà in ogni espressione che non viene lasciata cadere piú nel proprio alone di canto, ma è chiamata a farsi centro di musica, promotrice di un ritmo risoluto.

È dunque assai discutibile la distinzione di momenti di nostalgia, di abbandono (che sarebbero quelli piú lirici perché piú idillici) da momenti piú combattivi in una dubbia antologia, perché l’accento dominante è unico e quasi con insistenza maniaca questa poetica tende ad un centro costante nell’identificazione della ginestra con l’uomo degno e con il poeta, del motivo evangelico con il saldo ed eroico motivo personale (ed anche natura e Vesuvio direttamente uniti, sí che non assistiamo mai ad esposizione o predica) in modo da creare un unico riferimento lirico cosí personale e concreto che esclude retorica e didascalismo, descrittivismo ed estasi idillica.

Solo contenutisticamente si potrebbero distinguere motivi estranei, e non toni che variano ed arricchiscono dall’interno una unica linea poetica.

Per spiegarci praticamente, indicherei la strofa quarta in cui il poeta passa dalla contemplazione del firmamento (posizione apparentemente idillica) alla costatazione della miseria dell’uomo e della sua stolta superbia (motivo apparentemente discorsivo): ebbene un esame spregiudicato e «storico» porta alla conclusione che c’è un unico tono concretato in due slanci ampi, crescenti con lo stesso ritmo e pervasi dalla stessa tensione non dimostrativa, non contemplativa, ma affermativa ed evangelica.

Nella prima parte che potrebbe far ripensare al Canto notturno siamo invece ben lontani da quel fare meravigliato e nostalgico e il paragone ci assicura meglio della ferma assolutezza di una posizione di poesia forte, a suo modo «petrosa»: non il pastore con le sue domande eleganti e blande di forse e chissà, ma un uomo che si addentra nella contemplazione con sicuro impegno, che chiama risoluto «superbe fole» quelle che furono dolci illusioni, che non sfugge il vero, ma se ne fa apostolo. Come nella seconda parte ritornano crescendo le stesse mosse, lo stesso disprezzo di un’armonia conclusa, la stessa funzione musicale dei singoli membri sintattici.

Nella prima parte, nel tono scuro e scabro che è tipico della Ginestra e che qui diviene altissimo per coerenza suggestiva («la mesta landa», il «flutto indurato» che pare il simbolo di questa forza gigantesca e contenuta) la sintassi pare travolta dalla sinfonia che presenta piani e misure superiori al discorso poetico tradizionale e si impegna in un procedere lungo, appoggiato su parole piú forti e ripetute («punto»), in un passo non frettoloso e concitato, ma risoluto come certo sprofondare estatico ed eroico del Paradiso dantesco. E nella seconda parte lo stesso ampliarsi e prolungarsi, lo stesso sboccare in una interrogazione, lo stesso adibire parole ad una funzione di rafforzamento musicale per procedimento di «persuasione», di insistenza. Sí che non si può parlare di legami e zeppe prosastiche in funzione di immagini sensuose, ma di un unico ritmo, di un tono coerentemente duro e potente cui immagini, parole, movimenti servono, inutilmente esaminabili fuori di tale loro vita. Un esame, un commento puntuale che qui non è possibile mostrerebbe come questa strofa sia l’espressione piú rivoluzionaria del romanticismo italiano e che nella poesia della Ginestra ha trovato realtà superiore l’aspirazione leopardiana ad una poesia unitaria, han trovato vita le prove delle Sepolcrali senza cui ancora piú sconcertanti apparirebbero queste strofe allungate e potenti.

Appare cosí molto dubbia la proposta assai diffusa nella critica di una giustapposizione di motivi fra i quali quello idillico porterebbe unicamente una luce poetica con atteggiamenti che andrebbero dalla vicinanza al Canto notturno a quella ancor piú «idillica» ai quadretti del Sabato o della Quiete o comunque di descrizione paesistica in una tinta tenera e vaga, nostalgica e peregrina. Alla quale vicinanza potrebbero al massimo autorizzarci non tanto i movimenti, quanto certe espressioni e certe luci piú tenui, e fra l’altro letterarie (di origine petrarchesca), che si individuano entro un contesto severo e vicino a piú precise testimonianze di coerenza al nucleo ispirativo centrale, nella strofa sesta. Il «villanello intento», «l’usato suo nido, e il picciol campo», «l’ostel villereccio» ecc. portano indubbiamente l’eco di un’altra poetica e quasi la prova di un indulgere pericoloso a modelli letterari propri ed altrui (una certa somiglianza alla posizione del «vecchierel bianco, infermo» nel Canto notturno). E veramente queste espressioni non mi sembrano degne di una particolare attenzione se non come deviazione puntuale da un tono che si afferma potentissimo all’inizio scandito e sprezzante di pericoli prosastici, nel rilievo dei versi 266-268 in cui la concitazione della strofa non si placa, ma si «indura» come il flutto lavico che grandeggia in questa grande scena poetica proprio mediante quelle parole decise e vigorose che appaiono prosastiche ai fautori dell’idillio:

preda al flutto rovente,

che crepitando giunge, e inesorato

durabilmente sovra quei si spiega;

nelle tinte scure, meno familiari che predominano in tutto il canto con una potenza di immagine che ci sembra nuovissima nella nostra poesia:

nutre la morta zolla e incenerita.

Ed è su questo tono con un eccesso perfino di romanticismo «sepolcrale»[5], che si apre nella stessa strofa la poesia dell’«estinta Pompei». Quanto lontani dal mondo idillico, dalle sue immagini, dalle sue cadenze, in una poesia che scava un paesaggio come questo di Pompei o quello della campagna delle ginestre in cui entità poetiche di un’allucinante oggettività creano suggestioni di musica spietata e possente, lontanissima da quell’intonazione di musica-immagine di origine tassesca-arcadica da cui l’idillio leopardiano, anche nella sua massima forza di canto purissimo, trae le sue origini letterarie:

Questi campi cosparsi

di ceneri infeconde, e ricoperti

dell’impietrata lava,

che sotto i passi al peregrin risona;

dove s’annida e si contorce al sole

la serpe, e dove al noto

cavernoso covil torna il coniglio...

C’è semmai l’eco di isolati tentativi preromantici («rosseggiava la felce inaridita» nell’Ossian cesarottiano), preziosi indici di una poetica della suggestione per isolata ed assoluta evidenza, per presentazione fulminea, dal profondo, di entità che non si sciolgono in alone musicale, ma resistono in una presenza poetica di enorme efficacia nella sua nudità, nel suo vivere perentorio.

Non si pensi che un lettore di Montale riveda Leopardi attraverso la poetica di Occasioni, ma anche un simile accenno se limitato ragionevolmente può servire a individuare l’ultima precisazione di questo nuovo Leopardi cosí lontano dalla ricerca del vago, dell’indefinito.

Il paesaggio potente e arido della Ginestra non è un adattamento al tema, l’ornamentazione di un contenuto (come ad esempio la nota pagina bettinelliana sul Vesuvio), ma già sul presentimento di certi toni piú profondi dei Paralipomeni, delle Sepolcrali, è la piú evidente manifestazione di una poetica che non vuole armoniche conclusioni e tende al rilievo di una musica articolata, robusta, rafforzata e precisata da energiche sottolineature, da mosse battute e insistenti.

Questa poetica del presente che si impone, dell’«hic et nunc» del questo

(Qui su l’arida schiena...)[6]

non convulso e allargato in un respiro piú grandioso rispetto agli altri canti di questo periodo, colloca questo paesaggio cosí suggestivo (e i versi sopra citati con quell’accordo di sole ardente, lava impietrata, echi paurosi, il contorcersi lugubre della serpe e la timida fuga del coniglio, ne sono l’esempio piú alto proprio perché non scendono in colore e le parole vivono in un feroce rilievo di immagine e di scatto) non in un momento particolare, ma in una linea generale di costruzione coerente di cui può mostrare in forma piú evidente la totale destinazione poetica, quasi riprova piú sensuosa di una poesia che rivela la stessa forza, lo stesso procedere per impeti interni in forme sprezzanti dei pericoli della prosa. Lo scatto che anima il meraviglioso

dove s’annida e si contorce al sole

la serpe

è lo stesso che tende la furia virile e solenne della ripresa del verso 63

Non io

con tal vergogna scenderò sotterra

o l’ardita affermazione del verso 80

Per questo il tergo

vigliaccamente rivolgesti al lume

dove il «vigliaccamente» cosí prosastico (tanto che giustamente il Russo può annotare «di cotesto avverbio non conosco esempio alcuno nella poesia antica»[7]) può rappresentarci l’«outrance» della nuova poetica che adibisce alla sua chiara sinfonia i mezzi piú adatti, senza pregiudizi, e soprattutto proprio le parole che, liberate da una certa nozione di linguaggio eletto, possono servire al tono scuro e scabro, alla solennità decisa del canto bruciando ogni esitazione di «buon gusto». Per questo invece gli avverbi, le congiunzioni, i gerundi ricorrono tanto frequenti nella Ginestra apportando il loro peso di energia, di colore tutto interno, di funzione musicale senza riferimenti comunemente immaginosi, di possibilità di slancio, di stacco e di prolungamenti secondo la struttura articolata e complessa di queste strofe che hanno dilatato la perentorietà breve di A se stesso in una larga tensione sinfonica e si sostengono nelle loro campate alte e muscolose su questi sostegni nodosi ed energici.

Anche l’uso delle rime può illuminare la natura di una poetica che costituisce il piú deciso abbandono di strutture convenzionali per l’interna legge di aderenza agli impeti della personalità: quando ci si ricordi su quale piano di responsabilità ci si muove, lontani da ogni sospetto di romanticismo zingaresco! Le rime che ricorrono alla fine delle strofe, dove la loro presenza convalida e serra la separazione dei momenti musicali, sono adoperate nella maniera piú rivoluzionaria: ora lontanissime fra loro come richiamo in movimenti piú lunghi (si veda, ad esempio, ai versi 73-78, 75-83), ora raggruppate a tre o quattro, insistenti e addirittura portate da parole uguali a battere un ritmo quasi con ossessione (vedi i versi 40 e seguenti e specialmente i versi 170 e seguenti).

Tutto vive in questo rilievo di sinfonia eroica, cupa, solenne in cui ogni momento piú debole si assimila almeno ad una sostenuta energia, è sottomesso ad una unica funzione di tono in cui quelli che sono sembrati motivi diversi ed autonomi trovano la loro giustificazione superiore, la loro vita funzionale: come ad esempio quei termini di paragone (versi 137-144 e 202-212) che servono soprattutto, in quanto poesia, a preparare lo slancio ulteriore, ad accennare la linea che viene poi svolta potentemente nella parte principale che utilizza la spinta del primo movimento musicalmente omogeneo: come chiaramente avviene per l’eruzione del Vesuvio nella strofa quinta.

E a proposito di un ritorno di idillio entro l’ambito della nuova poetica che non è certo testimoniato dalla Ginestra, occorre limitare anche l’importanza del Tramonto della luna, momento indubbiamente debole dell’ispirazione leopardiana e scarsamente animato: quasi un corollario meno impegnato della Ginestra da cui è ripreso un nucleo vitale ed è, come in un esercizio di alto stile, allungato e diluito in un paragone privo di quella forte urgenza personale che aveva saputo creare il contrasto eroico dell’uomo cosciente della sua situazione e della natura grandiosamente e coerentemente mitizzata nel Vesuvio distruttore.

In una atmosfera lunare piú lucida che «vaga» che può richiamare legittimamente certe descrizioni da noi notate nei Paralipomeni, il quadro del tramonto della luna (tema di estremo romanticismo, quasi di «moda» romantica) è tutto funzionale, sottomesso al motivo della fine della giovinezza attraverso il deciso e rilevato «Quale... Tal» che esclude l’equilibrio e quasi la preminenza del quadro idillico nel Sabato o nella Quiete. E se cadenze idilliche sono chiaramente percepibili specie intorno al tema troppo qualificato del carrettiere (versi 16-19), esse non legano con la linea generale di una musica stanca, ma rinchiusa nelle forme slanciate e poco concluse della nuova poetica. E questa adopera le sue sottolineature di rime baciate, i suoi slarghi improvvisi che aiutano un procedere poco armonico: ma con una irresolutezza che è frutto non tanto di un pentimento, quanto di una debolezza, di un abbandono che non riesce al tono idillico e non riesce ai risultati cui ci hanno abituato i nuovi canti.

Qualcosa di secco, di scheletrico è infatti anche là dove ci si potrebbe attendere una poesia nuda sí, ma potente in coerenza con l’ispirazione non pittoresca del nuovo periodo. Certo non manca di forza lucida la definizione dei versi 47-50

(la vecchiezza, ove fosse

incolume il desío, la speme estinta,

secche le fonti del piacer, le pene

maggiori sempre e non piú dato il bene)

con il suo implacabile svolgimento, ma è appunto quasi il filo duro che regge altrove dall’interno una costruzione non ossuta e metallica, come il «pittoresco» è piú lineare e pungente di quello idillico.

Non dunque una prova chiara di «ritorno», quanto il risultato di un momento inferiore, meno profondamente ispirato.

Naturalmente se qui nella Ginestra una formidabile unità intima rende funzionali tutti i motivi apparentemente diversi o veramente piú deboli, non si deve giungere ad una fanatica riduzione di ogni sfumatura, di ogni luce piú blanda, di ogni segno piú classicistico. Ché anzi un esame puntuale mostrerebbe la ricchezza di questo grande canto e l’utilizzazione della piú larga esperienza leopardiana anche se rivista sempre nell’ambito della preparazione da noi studiata e nel tono ormai affermato. Cosí ai versi 49-51 dopo un impeto duro riaffiora il tono elegante e ghiacciato di epigramma classicistico:

Dipinte in queste rive

son dell’umana gente

le magnifiche sorti e progressive.

Come altrove qualche abbandono di pittura piú sommaria alla Paralipomeni, qualche indugio raziocinante sfuggono ad una intera continuità misurata nelle singole parole. E certo io non penso che in certi punti una migliore urgenza del ritmo interno non lasci piú opache e grigie delle frasi che il giudizio piú solito colpisce come oratorie e prosastiche precisandole come base di una origine raziocinante e polemica della Ginestra entro cui si dibatterebbe il vecchio poeta dell’idillio. E aggiungo che perfino a volte la spia di un decadere dell’ispirazione, di un suo particolarizzarsi arbitrario è fatta proprio dalle forme stilistiche nuove in un tentativo naturale di celare il momento deteriore, come le rime che ai versi 61-62 voglion coprire un afflosciarsi del ritmo interno.

E si può perfino azzardare per certi momenti meno controllati la figura di un abbozzo grandioso, di una stesura non in tutto ripresa punto per punto (le correzioni alla Ginestra esistono, ma pochissime) da una revisione ulteriore.

Ma indubbiamente il giudizio su certe strofe è molto piú orientato senza essere perciò fanaticamente elogiativo se ad un contatto di pura sensibilità o al riferimento ad una certa poetica leopardiana valida per gli idilli si sostituisce, come noi abbiamo indicato, la verifica di un metodo poetico accertato nella sua formazione non casuale e nel suo svolgimento di applicazione. Allora debolezze possono apparire non solo certi punti piú contorti o piú opachi, ma anche, come abbiamo detto, quelli piú esteriormente pittoreschi, mentre all’intonazione unitaria che piú ha trovato il suo simbolo stilistico nella «parabola» della ginestra, con il suo slancio evangelico, la sua larghezza costruttiva in cui l’impeto non si distende e scompare, ma si dilata e si costruisce, corrispondono procedimenti, sintassi poetica, lessico che isolatamente o in una diversa guida artistica apparirebbero oratori, filosofici, polemici.

Si è cosí unificato nella figura della ginestra il motivo della personalità persuasa sullo sfondo omogeneo del paesaggio scuro e solenne (perfino il nome latino «Vesevo» non è eleganza classicistica quanto colore tetro e severo) che pare davvero il colore stesso di questa persuasione desertica e virile come il ritmo senza squilli e con morbidezze sempre raccolte procede solenne e scandito, denso e slanciato, come il «flutto indurato», con una coerenza mirabile di tensione anche nelle singole parole che vivono dello stesso scatto, giustificate dalla stessa funzione. Sicché dimostrazione e polemica sono annullate dal piglio interno che identifica la presentazione eroica della personalità leopardiana, la sua affermazione di una verità posseduta, la sua protesta e la sua esortazione. Tutto ciò che separatamente sarebbe predicazione, dimostrazione, polemica, vivendo in una potente realizzazione personale, in una lirica espressione individuata, sfugge ad una sezione per lo piú contenutistica e schematica.

Quando per certi versi è stato citato Dante, al di là della convenzione dei paragoni, si può sentire un’indicazione soprattutto nel senso di una musica senza paura di prosa perché incentrata in una integrale pienezza personale «sub specie poëseos».


1 Cesare Luporini, Il pensiero di Leopardi, Livorno 1938, p. 29.

2 E molte delle cose dette da A. Malraux (Psychologie de l’art, «Cahiers du sud», 1, 1947) circa l’arte romantica come antiornamentale, come «rottura», come accusa possono da un altro punto di vista e da un altro clima critico aiutare un simile esame della poesia leopardiana «piú romantica».

3 Commento dei Canti, Firenze 1945, pp. 373-374.

4 Uno studio non fatto dovrebbe precisare le relazioni del Leopardi con il romanticismo come vita della poetica leopardiana nel suo muoversi in un ambiente culturale e spirituale. Si vedrebbe allora come anche nelle posizioni giovanili il Leopardi fosse ben piú romantico della scuola ufficiale italiana e come poi nell’ultimo periodo realizzasse premesse romantiche insite in tutto il movimento europeo.

5 Fra tanti retorici paragoni fatti fra il Leopardi ed altri scrittori poteva ben prendere posto con molta maggiore ragionevolezza un raffronto fra i Sepolcri e la Ginestra. Perché a parte l’appunto del ’28 nello Zibaldone («carmi sul tipo dei Sepolcri ecc.»), il Leopardi dové inevitabilmente risentire i Sepolcri anche come «summa» dei motivi cimiteriali e delle «rovine» (che furono per lui suggestioni dirette in spunti anche di lingua poetica) e come costruzione sintetica fra polemica ed affermativa. E sono evidenti i richiami ai Sepolcri come nella descrizione della Pompei notturna in cui i versi scuri e soffocati riecheggiano proprio quelli piú tipicamente fosco-romantici dei Sepolcri; come può interessare la derivazione dai Sepolcri in una linea di storia letteraria del motivo materialistico. Ma ecco che il Leopardi rifugge dalla traduzione musicale ed elegante del Foscolo come dalla soluzione estetica e storica del suo iniziale pessimismo. Non è con la religione delle tombe, con il culto archeologico dei grandi, con l’estrema istanza della poesia immortale che il Leopardi può superare la concezione tetra e severa della miseria umana e della crudeltà della natura ed una serietà piú profonda, meno civile e piú umana, conclude nella Ginestra questa storia romantica di vita sulla morte. E in certo senso non superamento grandioso e lucente, ma coscienza di quella situazione e costruzione disillusa su quella base sicura. Donde anche l’estrema diversità di colore poetico fra Ginestra e Sepolcri e la diversa coerenza della prima nelle sue tinte scure e solenni, nella sua tensione costante ed intima. Là un neoclassicismo piú deciso e coerente pur nelle sue venature e nella sua destinazione romantica, qui un romanticismo poco vistoso, ma intero e pur limpido e impeccabile e figlio di questa particolare tradizione italiana iniziatasi alla metà del Settecento.

6 «Qui», «questo» ricorrono in maniera sovrabbondante e specialmente negli inizi.

7 L. Russo, Canti, ed. cit., p. 379. [Ma si trova nelle Satire alfieriane].